Quando ci si appresta a scrivere di leadership, si rischia di cadere nell’ovvietà del dover definire cosa s’intende con “leadership”, quali sono le caratteristiche di un “buon leader”. Sfuggire alle definizioni più banali di questo concetto non è facile, in parte perché “leadership” rientra a pieno titolo nella lista delle parole più inflazionate degli ultimi dieci anni (insieme alla stessa parola “inflazionato”, per altro), e in parte perché tentare di dettagliare in modo univoco quella che a tutti gli effetti è una qualità variabile delle persone non può portare a nulla di costruttivo.
O di cui valga la pena parlare, quantomeno.
Ecco allora la prima matassa da sbrogliare. Come si può parlare di leadership?
Il primo desiderio inconfessabile (e lo esprimerò io per tutti) è che di “leadership” parli chi davvero si occupa di guidare, gestire e organizzare un team (che non sia quello del proprio ufficio stampa) ogni giorno. Non importa davvero in quale campo perché (e questo è il secondo desiderio) chi clicca su un articolo che parla di leadership spera di trovare la verità; il segreto ultimo per diventare leader esemplari, carismatici ed affidabili. Di quelli che si vedono sui post motivazionali con il masso trainato dai dipendenti sul quale il cattivo leader è seduto, mentre il buon leader tira la corda con tutti gli altri, hai presente?
La ragione è semplice. Non si tratta del separare le qualità di un leader dall’ambito nel quale si trova ad operare (un analisi interessante sulla quale magari ritorneremo in un articolo futuro). Si tratta del fatto che un leader (che è un essere umano, a dispetto delle qualità divine che spesso gli vengono attribuite) è la somma delle proprie esperienze, della propria cultura e storia, e di conseguenza non può riferirsi ad un modello “predefinito”.
E per fortuna.
Questa lunga introduzione (di cui vi chiedo di tenere a mente “storia” e “cultura personale”, il resto potete dimenticarlo) è per parlarvi di un articolo uscito un paio di anni fa, ad opera di Jack “Farva” Curtis.
Jack Curtis è Commanding Officer dello squadrone EA-18G Growler, autore di diverse riflessioni sul concetto di leadrship. Nel suo articolo “The Map on the Wall”, Jack spiega la sua strategia di onboarding nei confronti dei nuovi arrivati (membri dello squadrone e collaboratori).
La premessa è semplice; nell’ufficio di Jack c’è una mappa degli Stati Uniti. Ai nuovi arrivati viene chiesto di prendere una puntina, e di fissarla sul proprio luogo di provenienza. Jack parte proprio da lì per iniziare una conversazione su storia personale, esperienze e cultura per introdurre i nuovi arrivati all’interno del suo “team”.
Questo è l’articolo, di seguito alcune riflessioni.
Semplicità ed efficacia rappresentativa.
Se facciamo l’esercizio mentale di metterci nei panni del “nuovo arrivato” che entra nell’ufficio di Jack, e posiziona la sua puntina cosa immaginiamo?
Immaginiamo di avere davanti a noi una mappa piena zeppa di “altre” puntine, che indicano altre persone e altri luoghi.
Quando poi Jack ci chiede di parlare del posto da cui proveniamo, capiamo che ognuna di quelle puntine rappresenta non solo una persona o un luogo, ma una storia. La storia dei nostri colleghi, delle persone con le quali lavoreremo. E così con un gesto semplicissimo, Jack comunica già molto di quello che è l’obiettivo della Mappa. Un team nel quale le differenze diventano un valore a beneficio di tutti.
Non forza fisica (sebbene si stia parlando di militari) ma forza “strutturale”. E da dove nasce questa forza?, per usare le parole del Commanding Officer “We’re stronger because we’re different”. E queste differenze le possiamo declinare su qualsiasi tipo di diversità. Competenze, Conoscenze, Esperienze di Vita, Interessi …
Sarebbe superficiale non considerare in questo periodo storico l’aspetto pregnante di questo ragionamento legato ai temi dell’inclusività, ma non si tratta esclusivamente di questo. Valorizzare le differenze e indirizzare le persone verso un’obiettivo comune significa coltivare la “forza” di un team. Oggi, con una nuova consapevolezza legata al valore di un individuo, questo concetto assume un’importanza straordinaria.
Questa cosa che Jack usi delle puntine mi piace in modo particolare. L’efficacia di un’oggetto (o “artefatto” se dovessimo usare un termine più “tecnico” da un punto di vista comunicativo) è potente; più delle altisonanti frasi motivazionali, o delle parole ispirate sui poster con montagne da scalare o mari da navigare.
Come direbbe Brecht “A che servono le più belle, le più infocate massime, dipinte su allettantissimi cartelli, se vanno così presto fuori d’uso?”
E la conversazione. Quanto mi piace il fatto che Jack utilizzi l’espediente della puntina per mettere (simbolicamente e fisicamente) il nuovo arrivato al centro del discorso. Pensate a quante volte succede che i nuovi arrivati in azienda vengano investiti da una valanga di documenti da firmare, monologhi sulla “filosofia aziendale” e interminabili presentazioni di tutte le figure presenti in ufficio (con codazzo di titoli, sottotitoli e note a margine).
Jack no. Jack vuole sapere di quale nuova “storia” andrà ad arricchire il suo team, e l’unica cosa importante per lui è far capire da subito che il rispetto per le storie altrui è di fondamentale importanza.
L’articolo di Jack ci parla della sua strategia di “onboarding” ma la filosofia che accompagna il primo approccio ai nuovi arrivati è perfettamente coerente con la gestione in toto del suo “team”.
Come dicevo in apertura le qualità di un leader sono varie, e un buon leader non può essere valutato semplicemente sulla base di quanto aderisce ad un modello (nemmeno troppo consistente) di “leader ideale” che esiste più o meno chiaramente nelle nostre teste.
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